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La farmacia che si “riassorbe” non per questo può essere trasferita

Claudio Duchi
Claudio Duchi
La farmacia che si “riassorbe” non per questo può essere trasferita


Il “riassorbimento” delle farmacie istituite col criterio derogatorio della distanza, previsto dal secondo comma dell’art. 104 Tuls nella versione introdotta dall’art. 2 della legge n. 362/1991, è una fattispecie che, al momento della sua attuazione pratica, dà luogo a molti problemi, anche se, in sé considerato, si tratta di un istituto giuridico abbastanza lineare.

Disciplinandolo con la legge n. 362 del 1991 il legislatore ha inteso evitare la proliferazione delle farmacie sul territorio che si avrebbe qualora, aumentando la popolazione residente in un comune, non si computasse (non si riassorbisse, appunto) nel rapporto con essa la farmacia istituita col criterio della distanza, evitando così che si aggiunga a quella che si dovrebbe altrimenti istituire per rispettare il parametro di legge tra numero di farmacie e numero di persone residenti nel comune.

Il riassorbimento della farmacia istituita col criterio della distanza ne trasforma il regime in quello di una farmacia per così dire ordinaria e perciò la rende non più soggetta, tra l’altro, al rispetto della distanza minima di 3.000 metri dagli esercizi confinanti.

Proprio la trasformazione in farmacia ordinaria conseguente al suo riassorbimento di solito fa sorgere il problema, perché ingolosisce il suo titolare, che vede finalmente la possibilità di trasferire l’esercizio, magari inurbandosi ed abbandonando l’agglomerato isolato di modeste dimensioni nel quale era confinato.

Sennonché molto spesso i desideri del titolare della farmacia riassorbita subiscono una cocente delusione perché si scontrano con l’esigenza di mantenere l’esercizio nell’agglomerato per le cui esigenze di assistenza farmaceutica era stato istituito.

In altri termini, la questione si può mettere così: in astratto il riassorbimento della farmacia e dunque la sua trasformazione in una farmacia non più soggetta al rispetto della distanza minima di 3.000 metri potrebbe consentirle di trasferirsi anche al di fuori dell’insediamento isolato per il quale era stata istituita ma, in concreto, essa serve ancora lì perché, se se ne andasse, creerebbe una carenza del servizio farmaceutico che l’Amministrazione non può consentire.

Un caso esemplare è quello esaminato dalla sentenza n. 29/2010 del TAR Marche che può essere brevemente riassunto così: viene superata finalmente la soglia dei 7.500 abitanti in un comune dalla morfologia tipica in quella regione come in altre del centro e del sud, con un centro storico sul cocuzzolo del monte ed un assai più vasto insediamento nella parte pianeggiante del territorio comunale che arriva sino al mare.

Il titolare della farmacia posta nel centro storico vede finalmente aprirsi la possibilità di trasferire l’esercizio nella assai più popolosa parte pianeggiante del comune contando, appunto, sul riassorbimento della sua farmacia originariamente istituita col criterio della distanza.

Il suo piano è elementare e comprende l’istanza di ampliamento dei confini della sua sede farmaceutica sino a raggiungere la pianura, nonché l’istituzione nel centro storico del comune, che sarebbe risultato privo di assistenza farmaceutica proprio in conseguenza del trasferimento della sua farmacia, di una terza sede farmaceutica, di nuovo ricorrendo al criterio derogatorio della distanza.

Sennonché, le cose non sono risultate così semplici, innanzitutto perché la farmacia sita in pianura non era ovviamente disponibile a subire passivamente l’invasione territoriale di un concorrente e poi perché, dal canto suo, l’Amministrazione aveva fondati timori nell’allargare la sede della farmacia riassorbita per consentirle il trasferimento, dal momento che in questo modo avrebbe creato un “buco” nel centro storico del comune senza sapere se poi avrebbe potuto davvero coprirlo.

Il TAR Marche ha risolto il problema in maniera giuridicamente corretta ed argomentativamente convincente senza ricorrere all’affermazione, che pure risponde ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, per cui il riassorbimento non varrebbe per le farmacie rurali bensì soltanto per le farmacie urbane istituite col criterio della distanza perché, diversamente opinando, risulterebbe inevitabile la creazione di una scopertura nell’assistenza farmaceutica.

Infatti, ruralità significa isolamento e spostare la farmacia rurale significa perciò lasciare senza assistenza la popolazione residente nell’agglomerato isolato.

Questo orientamento giurisprudenziale pone il delicato problema di individuare farmacie istituite col criterio della distanza che non siano rurali ed anche di introdurre per via interpretativa un limite al riassorbimento che la legge non prevede espressamente.

Il TAR Marche, invece, ha evitato di addentrarsi in queste distinzioni ma ha rifiutato l’identificazione del riassorbimento della farmacia con il suo diritto a vedere allargata la propria sede in funzione di un trasferimento che le consenta di usufruire di una maggiore utenza, riequilibrandone la situazione economica rispetto a quella dell’altra farmacia posta sul territorio comunale.

Osserva correttamente il TAR che, da un lato, la nozione di riequilibrio tra le farmacie non è prevista da alcuna norma mentre, dall’altro, l’idea di creare una carenza del servizio per poi ricoprirla con una terza farmacia rappresenterebbe una forzatura, dal momento che la istituzione di una nuova farmacia si giustificherebbe se la carenza fosse nell’ordine effettivo delle cose e non già frutto di un piano inteso a crearla.

A ben vedere, quello che sembra un tecnicismo nasconde un problema di fondo di ben più ampia portata: se si crede nell’aspetto virtuoso del contingentamento delle farmacie sul territorio non si può tollerare di creare una carenza allo scopo di porvi successivamente rimedio con la proliferazione degli esercizi; se, al contrario, si parte dal presupposto che più farmacie vi sono sul territorio maggior servizio viene reso alla popolazione allora non vi è ragione di non ricorrere a questo o ad altri artifizi.

Ovviamente, vale la prima opzione, ma, forse, non è neppure il caso di dirlo.

 


Claudio Duchi

Nato a Cremona nel 1946, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Pavia nel 1969. È avvocato dal 1975 (albo degli avvocati di Pavia) ed ha esercitato l’attività forense occupandosi principalmente di diritto sanitario e delle farmacie, anche quale redattore di riviste giuridiche specializzate. È autore di alcune monografie e di numerosi contributi, tra cui “Titolarità e gestione della farmacia privata” (Utet Periodici Scientifici, 1990), “Il riordino del settore farmaceutico” (Pirola Editore, 1991, con Francesco Cavallaro) e, da ultimo, “I reati del farmacista” (Editoriale Giornalidea, 2000). Relatore in numerosi convegni e corsi ECM destinati al settore farmaceutico, collabora stabilmente con la rivista Farmamese.
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