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Una pianta disorganica

Francesco Cavallaro
Francesco Cavallaro
Una pianta disorganica


Tra i primi problemi posti dall’applicazione delle nuove (e frettolose) norme sulle farmacie vi è quello di capire se le piante organiche esistano ancora, o se con la modifica del rapporto demografico si sia inteso smantellarle.

Il testo delle nuove disposizioni è ambiguo, ed è compatibile con entrambe le tesi, poiché attraverso la soppressione dell’art. 2 della legge 475/68 elimina la norma che della pianta organica costituiva l’asse portante, ma non sopprime le norme di contorno che ad essa facevano diretto o indiretto riferimento.

Chi ha idee chiare in proposito è l’Ufficio Legislativo del Ministro della Salute, secondo il quale “la modifica è, inequivocabilmente, diretta ad eliminare la “pianta organica” delle farmacie e le procedure correlate”.

Secondo tale Ufficio sarebbe stata superata “la suddivisione del territorio comunale in tante aree quante sono le farmacie spettanti al comune in base alla popolazione residente, con la necessità, in caso di istituzione di nuove farmacie, non solo di individuare esattamente il perimetro del territorio attribuito a ciascun nuovo esercizio, ma anche di modificare il perimetro delle sedi delle farmacie già operanti, al fine di ritagliare il territorio di pertinenza delle nuove”.

Al contrario “per quanto riguarda la localizzazione spetta ora al comune, sentiti la Asl e l’Ordine provinciale dei farmacisti (…) identificarele zone nelle quali collocare le nuove farmacie.

Questa attività è svincolata dalla necessità di definire esattamente un territorio di astratta pertinenza di ciascun nuovo esercizio e non incontra limiti nella perimetrazione delle sedi già aperte, dovendo soltanto assicurare un’equa distribuzione sul territorio degli esercizi e tener conto dell’esigenza di garantire l’accessibilità del servizio farmaceutico anche a quei cittadini residenti in aree scarsamente abitate”.

In definitiva, conclude l’Ufficio ministeriale, “l’individuazione delle zone può quindi avvenire anche in forma assai semplificata (ed esempio indicando una determinata via e le strade adiacenti)”, purché nel rispetto della distanza minima di 200 metri.

Tale opinione appare discutibile, anzitutto in quanto poco coerente con altre disposizioni (si pensi al sopravvissuto 3° comma dell’art. 1: “chi intende trasferire una farmacia in un altro locale nell’ambito della sede” o al comma 2 dell’art. 11, secondo il quale “Ciascun comma, sulla base dei dati Istat sulla popolazione residente al 31.12.2010, e dei parametri di cui al comma 1, individua le nuove sedi…) e soprattutto di assai problematica applicazione poiché, in mancanza di una sede bene identificata, le farmacie finirebbero per concentrarsi nelle posizioni più appetibili, facendo venir meno l’“equa distribuzione sul territorio” che costituisce uno degli obiettivi delle legge.

Un esempio per tutti.

Il territorio del Comune di Milano è diviso in nove zone di decentramento: una di esse comprende il centro; le altre otto sono poste a raggiera tra il centro ed i confini del Comune.

Se, venute meno le singole sedi, alle farmacie venisse assegnata una di tali zone si verrebbero a determinare, in pratica, nove grandi sedi promiscue all’interno delle quali le farmacie cercherebbero di sistemarsi lungo le arterie più commerciali, o più vicine al centro, e disertando il retroterra, senza che esistano riferimenti topografici idonei a trattenerle nelle aree meno attraenti.

Limitando il discorso agli aspetti topografici, se il decreto Monti si fosse limitato ad abbassare il quoziente ad 1:3.300 si sarebbe trattato di una scelta politica, opinabile ma insindacabile perché approvata dal Parlamento.

Purtroppo il decreto è andato molto oltre, introducendo novità che sul piano tecnico ed amministrativo costituiscono veri e propri rompicapo.

Il Comune identifica le zone…” significa che il Comune propone tale identificazione ad un ente diverso (e magari più attrezzato, come la Regione o la Asl) o che stabilisce quali siano tali zone con una propria deliberazione? La soluzione preferibile sembra essere la seconda, poiché è previsto che qualora il Comune non provveda la Regione debba provvedere in sua vece nei successivi 60 giorni.

Trattandosi di una deliberazione comunale di carattere pianificatorio, e comunque concernente l’assetto di un servizio pubblico, essa dovrebbe venir assunta dal consiglio comunale, previa una delibera di giunta che individuasse un progetto sul quale chiedere i prescritti pareri dell’Asl e dell’Ordine.

E se le leggi regionali dispongono diversamente?

Una cosa è la norma di principio (cioè il nuovo parametro 1:3.300), che lo Stato può imporre, altro sono le norme di dettaglio e di organizzazione che in base all’art. 117 della Costituzione competono senza dubbio, in materia di sanità, a ciascuna Regione: una competenza della quale né Governo né Parlamento sembrano essersi curati.

Sennonché i Comuni e le Amministrazioni regionali sono vincolati al rispetto delle leggi regionali che disciplinano in modi diversi i procedimenti, e che in alcuni casi prevedono espressamente le piante organiche in senso tradizionale.

Resta da chiedersi se il provvedimento di individuazione delle “nuove sedi” sula base della popolazione residente la 31.10.2011 – cioè la revisione per così dire straordinaria imposta dal comma 2 dell’art. 11 entro 30 giorni dalla entrata in vigore della legge di conversione preveda anch’esso l’acquisizione dei pareri dell’Asl e dell’Ordine professionale.

La lettera della norma non menziona tali adempimenti, e la brevità del termine – coerente con l’esigenza di bandire rapidamente il concorso straordinario – suggeriscono una risposta negativa, ma è anche vero che in tal modo si compromette l’esigenza di un provvedimento equilibrato, adottato dal comune ma con la necessaria collaborazione di due enti dotati di specifica competenza in materia.

Per il momento l’alternativa resta aperta.

Per concludere questa rapida e sommaria carrellata di problemi – per le soluzioni occorrerà avere pazienza – c’è quello del conflitto di interessi dei comuni che sono già – o aspirano a divenire – titolari di farmacia, i quali sono chiamati a decidere dell’assetto territoriale del servizio, e che, anche senza volerlo (e talvolta fortemente volendolo) difficilmente riusciranno ad assumere le loro decisioni senza tener conto della esigenza di non pregiudicare gli interessi economici delle proprie aziende.

Anche sotto questo aspetto la nuova legge presta il fianco alla critica, poiché affida il ruolo di garante del pubblico interesse a chi – del tutto legittimamente – è anche portatore di un interesse privato e mercantile, e per il quale le farmacie non possono essere tutte uguali.


Francesco Cavallaro

Nato a Roma nel 1943, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma nel 1965. È avvocato dal 1969 (albo degli avvocati di Milano) e svolge l’attività professionale occupandosi principalmente degli aspetti giuridici della produzione e della distribuzione dei medicinali. Dal 1970 al 1980 ha curato la redazione di una rivista giuridica specializzata nel settore. Insieme con l’avv. Claudio Duchi ha pubblicato due raccolte di leggi in materia farmaceutica e, sempre con l’avv. Claudio Duchi, il commentario “Il riordino del settore farmaceutico”(Pirola, 1991). Ha partecipato a iniziative di formazione per laureati presso le Università di Milano e di Palermo.
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